Ghost in the Shell è, in assoluto, l’anime che più ho amato e riguardato negli ultimi due decenni. E non è solo per la qualità dei film e delle serie: certo, ci sono alcuni picchi di notevole perfezione (il primo film e le due stagioni di Stand Alone Complex), ma anche diversi momenti di mediocrità, come numerosi episodi del recente Arise. Quello che mi ha sempre affascinato di Ghost in the Shell sono, invece, le premesse e la loro esecuzione: un mondo sopravvissuto a una terza guerra mondiale, una crisi rifugiati sempre più pressante, e una tecnologia ormai così invasiva nella vita degli esseri umani che è frequente domandarsi dove e cosa sia l’anima (il ghost del titolo) se si ha un corpo costituito, in buona parte, da metallo e plastica. E, oltre a tutto questo, l’anime propone costantemente una fotografia eccezionale, che più di ogni altro media rende reale il concetto di cyberpunk, assieme a una musica altrettanto eccezionale – un successo replicato, nel genere, in pochissimi altri casi, come Blade Runner e Akira.
Tornando al film, abbiamo la prima buona notizia: tutto questo è decisamente presente, e qualitativamente si avvicina all’anime molto più di quanto ci si poteva aspettare e sperare. Niihama, la città immaginaria giapponese in cui è ambientato Ghost in the Shell, è resa perfettamente, con i suoi canali, luci al neon, e vicoli stretti ispirati a Hong Kong (o, più precisamente, all’ormai demolito quartiere di Kowloon). Alcuni tocchi di modernità aiutano ad attualizzare l’anime, come un maggior uso di ologrammi e di computer, ma non sono mai eccessivi, e rimane sempre presente, come è tradizione per il cyber punk, quella dicotomia tra high e low tech che è tanto affascinante quanto significativa.
Le scelte di casting sono altrettanto buone. Molto si è discusso e criticato, negli ultimi mesi, a proposito della scelta di Scarlett Johansson nel ruolo del Maggiore, ma si tratta di un problema creato e ingigantito da chi è completamente ignorante delle fonti originarie – come sono, solitamente, i cavalieri della giustizia online. Il corpo (robotico) utilizzato da Motoko nei vari anime è sempre un modello standard prodotto in massa, e in quanto tale ha tratti somatici occidentali e non asiatici: un attore non caucasico sarebbe risultato completamente fuori posto. Similmente, Batou e Ishikawa non sono asiatici, e ho decisamente apprezzato la scelta di attori, soprattutto per il primo. I personaggi che dovevano essere giapponesi, lo sono, e nel caso di Aramaki, il capo della Sezione 9, direi con una scelta più che ottima.
Scarlett Johansson nel ruolo di protagonista è accettabile: non fantastica, ma nemmeno disastrosa. Certo, il Maggiore non è assolutamente un personaggio facile, ma si poteva sicuramente fare qualcosa in più – non so se è colpa del regista/sceneggiatore, o se sono i limiti naturali della Johansson (che è sempre piuttosto blanda nei suoi film). È, comunque, solida nei momenti in cui serve, in particolare nelle sue interazioni con Kuze e, ovviamente, nelle scene di combattimento. Il tempo speso nei panni della Vedova Nera ha dato i suoi frutti.
Il punto debole del film è, forse, la sua trama. Si tratta, a conti fatti, di quel tipo di origin story che i film sui supereroi hanno così tanto popolarizzato negli ultimi anni: un incidente o esperimento costringono il protagonista a mutare, e nel corso della sua nuova vita scopre che c’era qualcosa in più che non gli è mai stato rivelato. È una variazione dell’archetipo della nascita di un eroe, e per quanto funzioni in film più leggeri, qui lascia un po` a desiderare, probabilmente a causa della complessità del tema e all’elevato numero di personaggi. È interessante notare, a questo proposito, che l’anime non ha volutamente mai approfondito l’origine del Maggiore: si ha qualche cenno qua e là, ma è un evento lasciato al passato (quando era ancora una bambina) e a cui viene dedicato di sfuggita appena un episodio, su oltre cinquanta. Quello che conta nell’anime non è come Motoko sia diventata il primo cyborg della storia, ma cosa significa per lei essere un cervello in un corpo completamente robotico: sono ancora umana? ho ancora un’anima? quale è il mio posto nella società?
Queste domande si trovano, comunque, nel film, ed è senza dubbio un punto di forza. Si ha genuinamente la sensazione di accompagnare il Maggiore nella sua ricerca, un bug alla volta. E la risoluzione finale è soddisfacente, differente a sufficienza (in particolare per il personaggio di Kuze) dall’anime da meritarsi un elogio. Andavano sicuramente approfonditi maggiormente i personaggi secondari, che nelle fonti originarie sono importanti tanto quanto Motoko e altrettanto interessanti – ognuno ha almeno un paio di episodio dell’anime a lui interamente dedicati, e sono qualitativamente tra i migliori. Certo, la durata limitata di un film impedisce un’estensiva esplorazione di questo tipo, ma si poteva facilmente risolvere riducendo il numero dei personaggi, e dando più spazio a quelli rimanenti.
Ad ogni modo, il film è decisamente al di sopra delle mie aspettative, ed è senza dubbio da aggiungere alla (sempre più lunga) lista di film per i quali il mio parere e quello della critica sono in notevole disaccordo. È un trend che ormai continua dai tempi di Looper (che io trovai estremamente deludente) e di Cloud Atlas (che tutt’ora considero uno dei migliori film sci-fi del nuovo millennio).
Ghost in the Shell merita la visione, sia per i fan dell’anime, sia per chi non lo ha mai visto.