E come spesso accade, è nuovamente la fantascienza a vantare il primato di discutere senza troppi peli sulla lingua di fatti contemporanei. Immigrazione e profughi, isolazionismo e aiuti internazionali, l’ovvia questione del colore della pelle: tutto materiale per Black Panther, affrontato con razionalità e disillusione. E, su tutto, l’ormai assodata qualità Marvel e una buona dose di azione e drama.
Ricetta che è decisamente piaciuta: i voti della critica e pubblico sono generalmente molto alti, e il risultato al botteghino sta distruggendo un record dopo l’altro (secondo più grosso incasso per un film Marvel negli USA dopo solo un mese, miglior risultato per un film sui supereroi senza Batman o Iron Man, nono film per incasso negli USA, e così via).
Ed è una ricetta che pure io ho apprezzato. La stanchezza da film Marvel sta, ultimamente, iniziando a colpirmi (fortunatamente più tardi e in modo più leggero rispetto ad altri della mia cerchia di amici), ma Black Panther ha saputo, in buona parte, tenermi sveglio e interessato.
Come anticipavo, la questione politica e ideologica ha una non indifferente importanza nello sviluppo del film. Evitando, come al solito, gli spoiler, basti ricordare come veniva presentato il Wakanda in Civil War: un piccolo ma ricco stato nel cuore dell’Africa, tecnologicamente estremamente avanzato, ma completamente nascosto dal resto del mondo. Perché restare in panciolle mentre i nostri fratelli neri nel resto del mondo vengono perseguitati e soffrono?, si chiede più di un personaggio nel corso del film.
La risposta non è semplice. Non lo è per il fittizio stato del Wakanda come non lo è nel “mondo reale”. Il conflitto alla base di Black Panther nasce tutto da qui: è corretto rimanere isolati per proteggere il proprio modo di vivere dagli stranieri, o bisogna aprire i confini al mondo e condividere la propria tecnologia, pur correndo il rischio (quasi certo, nell’universo Marvel) di finire nel bel mezzo di qualche pericoloso conflitto?
Il film brilla nei momenti in cui affronta questi dilemmi etici, proprio perché la risposta non è netta e definita, e pure il cattivo di turno è in grado (quando non è impegnato a fare le solite cose da cattivo) di proporre argomenti logicamente sensati a favore della cessazione dell’isolazionismo wakandiano.
Paradossalmente, le parti più noiose sono quelle tipicamente Marvel, in cui un tripudio di effetti speciali accompagna le solite battaglie tra supereroi e/o scagnozzi e personaggi secondari. Effetti speciali che, va notato, in alcuni punti sembrano piuttosto datati, quasi a livello del primo Superman di Raimi, mentre in altri fanno davvero un’ottima figura, in particolare nella capitale di Wakanda e i suoi fantastici paesaggi.
Wakanda che è l’innegabile protagonista, non solo per la trama, ma anche per quanto riguarda temi, musiche, fotografia. È stato fatto un lavoro fenomenale nel renderlo vivo e realistico. Il connubio tra tradizioni e tecnologia avanzata è estremamente interessante e affascinante: ancor di più se si considera che l’Africa non è per nulla una location comune nel cinema contemporaneo, e quando lo è, è sempre attraverso la lente occidentale. In Black Panther, la cultura africana può esprimersi con libertà, con i suoi ritmi, balli, vestiti, tatuaggi, musiche tradizionali (sound track assolutamente eccezionale).
È un peccato che Ryan Coogler non sia andato fino in fondo, ponendo ancor più in primo piano quel discorso sociale e politico che affiora invece solo a tratti. Sarebbe potuto essere davvero un film eccezionale. Rimane comunque un’ottima produzione Marvel, senza dubbio tra le migliori degli ultimi anni.