Blade Runner 2049

Blade Runner è uno dei film più influenti della fantascienza cinematografica moderna, e nonostante, ai tempi, una accoglienza decisamente fredda, continuò lentamente ad accumulare interesse, raggiungendo prima lo status di film cult e poi quello di classico indiscusso. Il rischio di riprendere in mano un’opera simile a distanza di decenni è enorme: basti ricordare il disastro dei prequel di Star Wars, o la più recente delusione di Prometheus Covenant. Le aspettative per Blade Runner 2049 non erano dunque, inizialmente, particolarmente elevate; aspettative che poi, nel corso dei mesi successivi al primo annuncio, si sono pian piano migliorate, dopo una serie di ottime notizie: il regista è il talentuoso Denis Villeneuve (Prisoners, Sicario, e il capolavoro Arrival) e non Ridley Scott, impegnato a distruggere l’universo di Alien; Roger Deakins (ha lavorato, tra gli altri, a Le Ali della Libertà, Non è un paese per vecchi, Sicario, Prisoners, Skyfall) si occupa della direzione della fotografia; la soundtrack sarebbe stata composta da Jóhann Jóhannsson, con cui Villeneuve aveva collaborato già per Arrival, e avrebbe mantenuto i toni malinconici e atmosferici dell’originale di Vangelis (Jóhannsson è stato poi sostituito da Hans Zimmer, comunque un altro ottimo compositore); e, infine, allo script torna Hampton Fancher, lo stesso sceneggiatore dell’originale Blade Runner.

Fortunatamente, le aspettative sono state tutte soddisfatte, e, anzi, superate. C’è però da fare una premessa, e credo sia meglio farla ora invece che in conclusione a questa recensione: Blade Runner 2049 è un film lungo (quasi 3 ore), a tratti molto lento, e generalmente preferisce impostare l’atmosfera e mostrarci il suo universo, piuttosto che muovere la trama. Se non vi piace questo tipo di film, quasi sicuramente vi capiterà di annoiarvi durante la visione. In particolare, chi considerava l’originale Blade Runner troppo lento e noioso, troverà 2049 ancora più esasperante. Credo comunque valga la pena vederlo al cinema: visivamente è fantastico, e sul grande schermo è senza dubbio di grande effetto.

Già si può dunque intuire uno dei punti di forza di Blade Runner 2049: è il tipo di sequel che approfondisce ed espande notevolmente quello che funzionava nel film precedente, risolvendone i problemi e aggiungendo contenuti originali, senza mai esagerare finendo nella ormai fin troppo abusata categoria dei soft remake. È forse il miglior esempio di seguito degli ultimi 20 anni, ed è precisamente il motivo per cui chi ha amato l’originale amerà anche questo, e viceversa per chi lo ha odiato.

Allo stesso tempo, Blade Runner 2049 riesce magistralmente a separasi dal suo predecessore, mostrandoci un mondo e una storia fondamentalmente autonomi. Sono trascorsi trent’anni dagli eventi del primo film (ambientato in un ormai prossimo 2019), e nel frattempo il mondo è cambiato, si è evoluto, senza dubbio peggiorato. Gli eventi di queste tre decadi sono riassunti e presentati brevemente durante i primi minuti, e in tre fantastici corti di cui consiglio vivamente la visione, pur non essendo strettamente necessari per la visione (si trovano facilmente su youtube).

Abbiamo, per esempio, una Terra distrutta dalla sovrappopolazione e dai disastri ecologici di cui già il primo film ci dava un assaggio; la pubblicità è ancora più invasiva, adesso sotto forma anche di enormi ologrammi e non solo di schermi sui grattacieli; e la tecnologia analogica (così tanto anni ’80) basata su pulsanti, leve e comandi vocali è integrata con sistemi digitali che ne risultano la perfetta evoluzione logica.

La fotografia e la musica riescono perfettamente a descrivere questo nuovo mondo. Nello stesso stile cyberpunk che il primo Blade Runner ha di fatto creato e popolarizzato, viene proposto allo spettatore una sequenza continua di contrasti: così, per esempio, la nebbia e il terreno spoglio e sterile dei campi (ora allevamenti di vermi, “fonti di proteine”) si scontrano con gli ologrammi e le luci al neon della città; o l’opulenza e la tecnologia all’avanguardia della sede della Wallace Corporation (e le sue luci) vengono contrapposte alla decadente periferia di Los Angeles, in cui si vive sopravvive in povertà in una immensa discarica a cielo aperto. Non è un futuro alternativo piacevole, questo è certo – o, meglio, lo è per i ricchi e famosi, che hanno già preso la strada delle stelle, verso le colonie extra-mondo che prosperano sulle spalle dei replicanti, schiavi prodotti in serie.

Parlando di replicanti, non si può che lodare la performance di Ryan Gosling e del suo Kappa. A differenza del personaggio di Harrison Ford nel primo Blade Runner, della cui umanità non c’è mai stata certezza (e Ridley Scott è sempre stato confuso al riguardo), in 2049 è chiaro fin dal principio che Kappa è un replicante. Il suo arco narrativo è (senza spoilerare) eccezionale, avvincente dall’inizio alla fine. Similmente, Deckard (Harrison Ford) non è, alla stregua di Han Solo nello Star Wars di JJ Abrams, un fan service inserito per ripetere fedelmente il vecchio ruolo, ma un personaggio cresciuto e cambiato nei trent’anni trascorsi dalla sua fuga d’amore con Rachel – nell’era dei soft reboot, non si può che lodare una scelta di questo tipo.

I rimanenti personaggi sono ben gestiti e con un casting all’altezza. Non scenderò nei dettagli per evitare il più possibile spoiler, ma ognuno ha il giusto spazio sullo schermo per poter essere approfondito e sviluppato a dovere. Ho trovato particolarmente interessante Joi, la AI olografica innamorata di K: a parte la recente commedia Her, i rapporti sentimentali tra intelligenze artificiali e esseri umani è un tema davvero poco esplorato cinematograficamente, pur essendo affascinante (una delle più originali “sex scene” della fantascienza ha come protagonisti Joi e K). Ho apprezzato anche Jared Leto, e non comprendo appieno le tante critiche che ha ricevuto – è certamente sopra le righe, ma è stato scritto esattamente per essere odiato e disprezzato, e ci riesce.

Blade Runner 2049 riesce a dare il giusto tempo sullo schermo a ogni personaggio in virtù, senza dubbio, della durata complessiva oltre la media (quanto spesso un film da 90 minuti sembra tranciato di netto per chiudere in fretta?), ma anche, e forse soprattutto, grazie alla sapiente struttura ed esecuzione. Villeneuve è uno dei più grandi registi moderni, e si vede. Le pause e i momenti più lenti sono dosati con saggezza, e non si ha mai una situazione simile alla famosa scena in Blade Runner in cui Deckard passa quelle che sembrano ore a ingrandire una fotografia alla ricerca di indizi.

È un successo ancora più interessante se si pensa a come il film si sviluppi attraverso diverse fasi e generi. Il primo atto è quello più strettamente noir: Kappa è, a conti fatti, un detective, e uno decisamente bravo. La pioggia, le atmosfere cupe, il lento seguire la catena di indizi, sono tutti tipici del genere – non è un caso che il primo Blade Runner sia generalmente considerato il più influente film tech-noir (o science-fiction noir), e 2049 continua sullo stessa strada. A chi non fosse abituato a questi ritmi sicuramente il film sembrerà inutilmente lento, ma bisogna ricordare che l’obiettivo è impostare i toni, farli assorbire dallo spettatore, al prezzo di lasciare temporaneamente che la trama rimanga in secondo piano.

Dal secondo atto in poi il film si velocizza, pur restando entro certi limiti. Anche qui è difficile scendere nei dettagli senza rivelare troppo, e quindi basti sapere che la risoluzione finale è soddisfacente, con uno scontro tra replicanti affascinante e in una location decisamente imprevista. Le trame che andavano chiuse lo sono, e altre vengono lasciate aperte, com’è giusto che sia.

In definitiva, si tratta di un film eccezionale che prosegue la lunga serie di successi di Denis Villeneuve. Le recensioni sono universalmente entusiaste, e sarà probabilmente uno dei principali concorrenti ai prossimi Oscar. Come premesso, però, si tratta di un film che può facilmente risultare troppo lungo e noioso, se non piace il genere.

 

Voto finale: 9.5/10